02/06/2022
Satira Duodecima
IL COMMERCIO
Perditus, ac vilis, sacci mercator olentis
Giovenale, Sat XIV, 269
Trafficator di sozze merci vile.
Il pensiero politico di Alfieri è frutto della conoscenza della realtà socio-economica a lui contemporanea, ottenuta dall’ascolto di testimoni privilegiati, quali erano i nobili piemontesi disseminati nelle varie sedi diplomatiche dei paesi da lui visitati, e gli antichi condiscepoli d’Accademia ormai in carriera presso le corti europee; ma anche dall’assidua frequentazione degli autori classici oltre che dei moderni, quali Machiavelli, Montaigne e Rousseau. Un intellettuale atipico e un nobile del tutto fuori posto, affatto inconciliabile con un Pietro Metastasio, che in quegli stessi anni frequentava i salotti e le corti, ma con tutt’altro intendimento, riscuotendo dall’Alfieri lo sprezzante epiteto di “musa appigionata”, essendo stato visto eseguire la “genuflessioncella d’uso” all’indirizzo dell’imperatrice Maria Teresa d’Austria.
Il lusso delle parures e la ricercatezza dei menu suscitavano nel poeta piemontese risonanze ben diverse dall’ammirazione espressa dallo stuolo osannante dei cortigiani: gli parlavano di guerre coloniali, soprusi e rapine militarmente organizzate e legalizzate da Graziose Maestà coronate, tutte talmente simili le une alle altre da odiarsi a vicenda, soprattutto all’aprirsi dei problemi di successione.
Intanto, in Inghilterra si andava sviluppando il contrasto tra i grandi agrari e i capitalisti, gli uni aggrappati alla rendita fondiaria e gli altri a quella manifatturiera, entrambi incapaci di concepire l’arricchimento e lo sviluppo in termini di bene comune. Filosofi, economisti e sociologi concedevano la loro benedizione condizionata a quel tumultuoso scatenarsi della giungla mercantile del nuovo vangelo liberista, considerandola un male necessario ma transitorio, destinato a dissolversi da sé non appena – grazie ad esso – l’umanità avrebbe raggiunto uno stato generale di benessere molto vicino alla felicità, previsto entro pochi decenni.
Il verso di Giovenale che l’autore pone come linea-guida all’intera Satira evidenzia i fue aspetti del “commercio” secondo Alfieri: la “viltà” (la meschinità-vigliaccheria del “mercante” e la “sozzura” delle merci trattate (quanto siano inquinate e inquinanti le mercanzie che dominano il moderno “mercato globale” è ormai universalmente noto).
In questa geniale satira, Alfieri non si perde a sbertucciare con i soliti luoghi comuni li piccolo esercente della bottega sotto casa, ma punta direttamente sulla impresentabile mistificazione dell’economia di mercato di dimensioni globali. Per primo percepisce la connessione tra l’imperialismo, lo schiavismo e il razzismo. Nelle due satire seguenti (Tredicesima e Quattordicesima) si completa la Trilogia sociopolitica che ha il valore di un affresco di ampio respiro, smascherando i trucchi dell’alta Finanza e la militarizzazione dell’economia mercantilista.
Alfieri, controcorrente, non rinuncia alla scomoda posizione del convitato solitario, isolato come un menagramo iettatore, che fiuta il lezzo di cadavere sotto le pompose livree, le voluminose crinoline e le incipriate parrucche lanciate in vorticosi minuetti, su cui incombe l’ombra sinistra del cataclisma.
Una voce sgradevole, come sempre quella del profeta di sventure, che i sovrani preferiscono ignorare, per non essere obbligati a prendere decisioni sgradite alla corte e ai grandi elettori, come comandanti che non osano interrompere l’orchestrina mentre la nave affonda.
TESTO (vv. 1-18)
E in te pur, d’ogni lucro idolo ingordo,
Nume di questo secolo borsale,
un pocolin la penna mia qui lordo:
ch’ove oggi tanto oltre il dover, prevale
quest’accecato culto onde ti bei 5
dritt’è ch’io ti saetti alcun mio strale.
Figlio di mezza libertade il sei,
nol niego io già, ma in un mostrarti padre
vo’ di servaggio doppio e d’usi rei.
Ecco: ingombri ha di prepotenti squadre 10
la magra Europa i mari tutti; e mille
terre farà di pianto e di sangue adre.
Sian belligere genti o sien tranquille;
abbiano o no metalli, indigo e pepe;
di selve sieno, o abitator di ville; 15
tutti stuzzicar densi, ovunque repe
quest’insetto tirannico Européo
per impinguar le sue famelich’epe.
Trascrizione attualizzata
“Un mostro s’aggira per l’Europa: l’idolatria del Mercato, il dio di questo tempo dominato dalla borsa. Me ne voglio occupare, a costo di sporcarmi alquanto la penna, ma devo assolutamente farlo, perché il culto del Mercato sta togliendo alla gente il lume degli occhi, molto oltre i limiti della ragionevolezza.
Dicono che il Mercato non mette radici dove non c’è un minimo di libertà: non lo nego, ma quello che voglio dimostrare è che esso produce il doppio di schiavitù e di consuetudini criminose.
Presto visto: questo nostro avido Occidente ha occupato tutti gli oceani con le sue prepotenti flotte, e sta avvolgendo mille popoli in una notte di lacrime e sangue. Non importa che si tratti di popoli bellicosi o tranquilli, che possiedano o meno giacimenti di materie prime o colture di droghe, che siano civilizzati o selvatici, tutti li deve provocare, ovunque riesca a strisciare questo tirannico insetto che è la civiltà occidentale, per arricchire la sua fame insaziabile.
Libera interpretazione
IL DIO MERCATO
L’Europa complessivamente presa – e non soltanto i singoli Stati che la compongono – è il bersaglio di questa Satira Duodecima. Ma l’Europa per Alfieri sta al diquà come al dilà dell’Atlantico: quelli che noi conosciamo come “Stati Uniti d’America” erano i possedimenti d’Oltremare dell’impero britannico, affrancatisi solo
una decina d’anni prima dalla madrepatria, allo scopo di sfruttare in proprio e non per conto terzi i territori colonizzati.
Alfieri si ribella in profondità alle basi stesse dell’architettura economico-sociale dell’Europa del suo tempo. Una ribellione “trasversale”, come si dice oggi, che prosciuga la fonte stessa della potenza europea, mostrando l’immoralità dei suoi presupposti.
Cresciuto nell’assurda disciplina dell’accademia militare, se ne sottrasse al più presto con una istintiva e fondamentale obiezione di coscienza; attraverso i suoi viaggi e le confidenze raccolte nelle ambasciate e nelle corti, egli aveva maturato poi la convinzione che i titolari del potere escono tutti da un unico stampo, giovani o vecchi, buoni o tristi, uno o molti, ereditari o elettivi, usurpatori o legittimi che siano; tutti imparentate tra loro, le corti europee si comportano tutte secondo un’unica logica. Agli occhi di Alfieri, l’unità europea, sotto questo aspetto, è un fatto acquisito, le cui radici affondano nella comune vocazione dei suoi governi all’arroganza infinita e al delirio di onnipotenza.
Spinte dalla accecata religione del dio Mercato, le prepotenti squadre di questa magra Europa, (affamata e immiserita dalle ingiustizie sociali, dalle guerre continue, dalle epidemie e dalle eccezionali carestie, ancor più che dalla scarsità dei beni naturali) ingombrano i mari tutti.
Secondo il pensiero politico alfieriano non si può negare che il Mercato sia figlio di una “mezza libertà”, ma è padre di schiavitù e corruzione in doppia misura (servaggio doppio ed usi rei) perché soltanto chi può schierare potenti flotte ed eserciti agguerriti potrà godere della necessaria libertà di mercato. E le flotte europee, in nome di tale libertà mercantile, portano provocazione e rapina a mano armata ai quattro angoli del mondo.
Con un’analisi precisa, viene descritto il meccanismo dell’oppressione economica (l’esatto contrario della sbandierata libertà) esercitata dalle massime potenze europee sulle popolazioni subalterne. Il conte Alfieri profeta della contestazione globale? Di fatto la sua Satira Dodicesima è una furiosa filippica contro l’ipocrisia del mercantilismo settecentesco, negando le favole della libera iniziativa e dei benefici della concorrenza. Il mercato internazionale – dice il signor conte - funziona solo se può contare su flotte agguerrite e rapine di dimensione planetaria.
Una bestemmia, un sampietrino nella sfavillante vetrina dell’opulenza europea.
TESTO(vv. 19-33)
Stupidi e ingiusti noi, sprezziam l’ebreo
che compra e vende, e vende e compra,
e vende; 20
ma siam ben noi popol più vile e reo:
che, non contenti a quanto il suol ci rende,
dell’altrui ladri ove il furar sia lieve,
facciam pel globo tutto a chi più prende.
Taccio del sangue American, cui beve 25
l’atroce Ispano, e il vitto agl’Indi tolto
dall’Anglo, che il suo vitto agl’Indi deve.
Se in fasce orrende, al nascer suo, ravvolto
mostrar volessi il rio Commercio, or fora
il mio sermone (e invan) prolisso molto. 30
Basta ben sol, che la sua infamia d’ora
per me si illustri, appalesando il come
l’iniqua Europa sue laidezze indora.
Trascrizione attualizzata
Colonialismo e razzismo, le due facce della nostra “civiltà superiore”. Stupidi e ingiusti, noi europei, disprezziamo gli ebrei che campano di compravendita, mentre pratichiamo la rapina planetaria e la chiamiamo “organizzazione mondiale del commercio”: questo sì, fa di noi un popolo spregevole e criminale. Abbiamo abbandonato l’agricoltura come troppo poco redditizia, e ci siamo messi a scorrazzare per il mondo facendo a chi più ruba le risorse altrui, dovunque lo si possa fare a man salva. Qualche esempio? Gli Spagnoli succhiano atrocemente il sangue degli Indios americani, e gli Inglesi si nutrono di quanto estorcono agli Indiani, affamandoli. La storia del Commercio, a partire dalle sue origini, è orribile. Ma lasciamo stare il passato: basta guardare come l’Europa di oggi nasconde sotto gli orpelli di un lussuoso mantello la propria indecenza morale.
Libera interpretazione
Un diamante e’ per sempre? In Angola, in Congo, in Sierra Leone il mercato dei diamanti (gestito dagli europei, in nome dell’attuale organizzazione mondiale del commercio) ha fatto 3,7 milioni di morti: è scritto su tutte le riviste di attualità economico-politica, ed è la naturale prosecuzione dell’amara satira alfieriana che stiamo leggendo. Con essa, il suo Autore entra nella serie dei grandi utopisti moderni che hanno lottato per frenare la deriva dell’umanità drogata dal delirio di onnipotenza che chiamano “ricchezza”; oltre ad essi, il mito dell’antica romanità repubblicana costituiva per l’Alfieri una sorta di età dell’oro della probità politica, una prova storica del fatto che un altro mondo è possibile, e quindi è possibile un altro pensiero, in alternativa al pensiero unico liberista di cui i suoi contemporanei inglesi (Jeremy Bentham e Adam Smith, ad esempio) stavano gettando le basi, per giustificare il sogno (quanto inconsistente oggi lo vediamo) di una rivoluzione industriale che avrebbe dovuto portare finalmente gli uomini alla felicità nel volgere di pochi decenni.
Ad esso, questo piemontese spiemontizzato (un apolide che aveva scelto il volontario esilio da una patria che pure amava) oppone l’affascinante leggerezza della poesia-utopia, intesa come unico vero fondamento per un futuro sostenibile di un’umanità a perenne rischio di abbrutimento.
Arti, lettere, onor, tutto è stoltezza, in questa età dell’indorato sterco che il subitaneo lucro unico apprezza…l’iniqua Europa sue laidezze indora. (vv. 44-45, 33)
Il subitaneo lucro ricorda molto da vicino i “sùbiti guadagni” iscritti da Dante Alighieri fra le cause della rovina della sua Firenze (Inferno, 16,73) e che Alfieri aveva posto all’inizio della Satira Terza (La Plebe) : la dimensione etica della satira alfieriana emerge in tutta la sua severità. Il lusso, che qui viene molto duramente definito indorato sterco, è solitamente presentato dalla propaganda di regime come “alta qualità della vita” e indicatore di alto benessere economico e sociale (oggi si chiama PIL): una martellante campagna di menzogne ci fa credere che possedere e ostentare oro e diamanti sia un elemento nobilitante, e assimilare questa cultura significa rendersi complici dei crimini organizzati e commessi in loro nome.
Di più, si tratta di “indorato sterco” perché in realtà sono beni che non possiedono un vero valore in sé (come, invece, i prodotti della terra che servono alla vita) ed è soltanto la loro rarità – artificiosamente procurata e abilmente mitizzata – che rende tanto alta la loro quotazione.
Non solo le corti, ma le religioni stesse cadono in questo gioco perverso, profondendo oro e gemme nelle suppellettili sacre, divinizzando e benedicendo così un equivoco millenario. E con l’oro e i diamanti l’Europa iniqua, ingiusta, copre di lustrini le sue impresentabili vergogne, senza far sapere al gran pubblico che l’estrazione e la commercializzazione dell’oro e dei diamanti avviene in condizioni a dir poco inigieniche e malsane, quando non è apertamente criminogena e sobillata come tale da impassibili managers che la dirigono a colpi di telefono da uffici ovattati e ben refrigerati a migliaia di chilometri di distanza, con l’impiego di truppe mercenarie e mestatori privati che mandano al macello schiere di bambini-soldato, abusati e arruolati non appena siano in grado di reggere un’arma.
Così i media prezzolati (i gazzettieri amici) potranno continuare a straparlare di “guerre tribali”, per confermarci nel pregiudizio che esistono per natura (o per volontà divina) le “razze inferiori” e che l’Occidente deve far loro la cortesia di dominarle perché non sapranno mai governarsi da sé.
TESTO (vv. 34-51)
Annichilate, impoverite, o dome
per lei le genti di remote spiagge, 35
di alloro no, di baccalà le chiome
orniamole; poiché lustro ella pur tragge
dai tanti navigati fetidumi,
che a forza vende come a forza estragge.
Batavi, ed Angli, di quest’arte i Numi 40
fatti or ben son da lor natìa scarsezza,
ma immercantati ci han troppo i costumi.
Arti, lettere, onor, tutto è stoltezza
in questa età dell’indorato sterco,
che il subitaneo lucro unico apprezza. 45
Traccie d’amor di gloria invan qui cerco,
né di pietà religiosa l’orme.
Chi sei? Che fai? Son tutto: io cambio o merco.
In mille, e inique tutte, vili forme
tiranneggiar questo risibil Mostro 50
veggio: e virtù, non mercantessa, dorme.
Trascrizione attualizzata
Merita, questa Europa, la corona di Regina del Baccalà: solca gli oceani il fetore delle sue flotte mercantili, cariche del bottino che ha sottratto con la violenza a lontane popolazioni costiere che vivono di pesca, annientandole dopo averle messe in ginocchio e ridotte in miseria: bottino che con la violenza vende dettando le proprie condizioni
Olandesi e Inglesi sono diventati gli dei di quest’arte, visto che di roba loro ne hanno ben poca; ma hanno finito per farci credere che è il Mercato a stabilire ciò che è giusto o non lo è, in questo luccicante mondo di merda, in cui si è apprezzati soltanto per l’arricchimento rapido e improvviso.Hai un bel cercare qualche traccia d’amor proprio o di pietà religiosa: per essere qualcuno devi essere un finanziere o un commerciante di successo. Guardiamoci in giro: grazie al sonno degli onesti, questo ridicolo mostro spadroneggia in mille modi, tutti disonesti.
Libera interpretazione
Il Nostro ha imparato bene la lezione di Orazio e Giovenale: dal primo ha assimilato il distacco aristocratico dell’analisi della realtà, dal secondo la vena plebea, aggressiva e graffiante.
L’elaborazione delle Satire durò vent’anni; aveva ventotto anni quando aveva cominciato a pensarci, dopo i grandi viaggi giovanili e lo sconvolgente incontro con don Tommaso Valperga di Caluso, fratello dell’ambasciatore. piemontese a Lisbona. Possedeva ormai un bagaglio di informazioni riservate, i retroscena della politica europea - che era la politica atlantica di allora - e sui fermenti rivoluzionari dei coloni inglesi e della borghesia francese. Il diluvio era ormai nell’aria: Alfieri, rinnegato, anarchico, libertino, libertario, aveva materia sufficiente per seppellire in una amara risata la follìa del nuovo credo liberista-mercantile che stava per esplodere nell’orrendo conflitto tra Inghilterra e Francia, tra Freedom e Liberté.
L’etica alfieriana insorge: il culto del dio Commercio, la religione del Mercato globale, ha prodotto un danno ben più profondo dei saccheggi, delle distruzioni e degli eccidi di massa. Essa ha immercantato le coscienze, sopprimendo in noi (europei) ogni senso morale, per cui è buono ciò solo che rende economicamente, e ciò che non porta soldi non ha senso.
L’impegno gratuito, il lavoro oblativo, il piacere della professionalità seria, della creatività artistica e della ricerca filosofica senza ritorno in termini di royalties e di banconote sonanti, la contemplazione ascetica e la vita spirituale fanno ridere: per essere “qualcuno” occorre avere una nicchia nel tempio del Mercato, e le sole carriere “serie” sono quelle che portano a metter le mani sulla gestione del commercio e della finanza, comprese quelle che piamente provvedono alle opere di religione, garantite dalla profonda devozione alla Santa Bustarella. L’Europa costruita esclusivamente sul denaro e sulle merci, ha basi malferme e impure – come concluderà questa stessa Satira – perché prive di un robusto riferimento etico.
Alfieri non fa distinzione di classi sociali: la corruzione mercantile delle coscienze tocca imprenditori e operai, funzionari dello Stato e delle chiese; non c’è niente che tenga, né l’amor proprio e il senso dell’onore (amor di gloria) né l’amor di Dio (pietà religiosa): essere onesti laboriosi, geniali, pii non serve a niente, e se non si acquista un’identità nel mondo del denaro non si è nessuno. Al contrario, il Mercante esaurisce in sé l’essenza dell’umanità: egli solo pouò dire “Son tutto: io cambio e merco (dal latino mercor)”.
All’epoca di Alfieri anche alcune correnti di derivazione cristiana predicavano che il successo negli affari è segno del favore di Dio, e che il ricco è un prediletto del Signore. Esse fornirono una base ideologica di matrice religiosa alla “rivoluzione industriale” e al consolidarsi del sistema capitalistico europeo.
Nota: teniamo presente che il ricchissimo conte Alfieri scoprì il conflitto di interessi, e per poter dire queste cose, non solo si liberò di tutte le sue proprietà immobiliari (cedendole alla sorella Giulia in cambio di un vitalizio), ma rinunciò al titolo nobiliare e alla cittadinanza piemontese..
TESTO (vv. 52-69)
Voi, Siculi e Pollacchi, il grano vostro
Dateci tutto, o vi farem noi guerra:
pascavi in vece il Salumajo nostro.
Ma il truffato granajo si disserta 55
Ampio a voi, Lusitani, a patto espresso.
Che niun di voi più ardisca arar sua terra.
Tutto a viti piantar vi è pur concesso,
il vostro suol, dal buon Britanno amico,
che il vostro avere ha in cuor
più che sè stesso. 60
Ei, bell’e cotto il pan, perché col fico
Voi vel mangiate in pieno ozio giocondo,
mandavi; e chi sel cuoce è a lui nemico.
Così, non che le scarpe, anche il più immondo
Attrezzuccio, ei vel manda insino a casa; 65
e v’inibisce ogni pensiero al mondo,
fuorché di dargli quanto vin s’invasa,
le vostre lane e gemme e argento ed oro,
e ogni altra cosa che vi sia rimasa.
Trascrizione attualizzata.
Esempi concreti: gli inglesi impongono alla Sicilia e alla Polonia – i tradizionali granai d’Europa – la monocultura del frumento, al Portogallo quella del vino, materie prime da trasferire alle manifatture inglesi, e successivamente rivendere sotto forma di prodotto finito ai paesi produttori, a cui si vieta di trasformarle in proprio (evitando così il pericolo di concorrenza). Il bello è che, ciò facendo, gli inglesi hanno anche la pretesa di presentarsi come benefattori dell’umanità e dispensatori di civiltà, con la scusa che i loro rapporti economici avvengono tramite regolari trattati internazionali, essendo del tutto secondario che la garanzia del successo di tale progetto è la superiorità militare e che vengono imposti con la pistola puntata alla tempia. Ciò condiziona la cultura dei “partners” economici a cui – peraltro – si ha cura di “inibire ogni pensiero al mondo”: dalle scarpe al pitale, è la britannizzazione dell'universo.
Libera interpretazione
Una lezione di macroeconomia: l’organizzazione mondiale del commercio dell’impero britannico nella seconda parte del Settecento. Il criterio generale è chiaro e a suo modo “scientifico”: trasformare il mondo in uno scacchiere di monoculture, con il prelevamento delle materie prime nei paesi deboli e la trasformazione nelle manifatture della madrepatria, che rivende il prodotto finito a prezzo di monopolio.
La tragedia greca rivela i drammi delle corti, verminaio di intrighi e soprusi, ma che restano quasi sempre drammi interiori e interpersonali, scatenati dalle passioni umane più che dalla ragione di Stato. Anche la commedia greca è inserita nel quadro politico, ma in modo indiretto; così dicasi di quella di Plauto, che era costretto dalla censura ad ambientare in Grecia le sue dissacranti sceneggiature su vecchi possidenti taccagni e boriosi generali inefficienti, per non rischiare di scuotere la credibilità dei due pilastri portanti della società romana, il paterfamilias e il dux.
Pure Orazio e Giovenale facevano satira parlando a nuora perché suocera intenda.
Qui Alfieri, invece, mette la prua in rotta di collisione sugli orrori e le iniquità del sistema politico in quanto tale, non sulle debolezze o gli errori o la cialtroneria dei mercanti.
Questo nobile astigiano autodidatta si dimostra un politico/politologo che si esprime in poesia e in letteratura - che per questo inventa un genere e un linguaggio inediti - non un poeta/letterato “imprestato” alla politica. Nel furibondo scatenarsi dei diversi nazionalismi del suo tempo, intuisce e denuncia la logica comune che tutti li determina, la sete di potenza economica, come oggi fanno i movimenti di base irriducibili (quelli a cui “non va mai bene niente”) che si oppongono a livello planetario, all’attuale gestione del mercato globale, basato sullo sfruttamento permanente e sistematico degli stati ricchi sui popoli impoveriti Aveva intuito con due secoli di anticipo che – lo si voglia o no – si finisce sempre per “parlare come si mangia” e accettare l’egemonia per via merceologica è sostanzialmente un arrendersi all’egemonia culturale. C’è un messaggio per noi: se vogliono imporci i loro “navigati fetidumi”, la disobbedienza incomincia dal “fast food”, e i signori della guerra umanitaria deglutiscano pure i loro hamburger di plastica riciclata tracannando lattine di uranio impoverito allo stato liquido.
Una recondita chiave di lettura (e v’inibisce ogni pensiero al mondo, al v. 66) ci aiuta a capire lo scopo essenziale della gran macchina del Mercato: impedire alla gente di pensare.
TESTO (vv. 70/93)
Ma voi, Galli nemici, e popol soro 70
Nella grand’arte nautica, in cui vinti
foste dall’Anglo, or siate in suo ristoro
a comprar per trattato a forza avvinti
dall’Anglo sol del Canadà i cappelli,
e sproni, e selle, e freni, e fruste, e cinti. 75
Voi, Suechi, e Dani, poi da buon fratelli,
darete all’Anglo solo i vostri abeti,
e il ferro, e il rame, ond’ei sue navi abbelli.
E così tutti i Popoli discreti
Tutto dar denno, e ripigliarsi il poco, 80
di che vorrà il Britanno farli lieti.
Ma, tra il Batavo e l’Anglo, arde il gran fuoco,
perché tra lor da barattar null’hanno,
né vuol l’un l’altro dar l’avaro loco.
Salano aringhe entrambi, entrambi fanno 85
rei formaggi, e confettan lo stocfisce;
e di balene a pesca entrambi vanno: dunque, forz’è che invidia tra lor strisce,
e si barattin, se non altro, il piombo:
né già tal guerra in lor soli finisce; 90
che tutta Europa, mercé il gran Colombo,
or si dà in capo pel Real Tabacco,
or per l’accciughe, ed or pel tonno e il rombo.
Trascrizione attualizzata
Ora esaminiamo il rapporto “commerciale” dell’Inghilterra con la Francia, la Svezia, la Danimarca e l’Olanda. Inghilterra e Francia sono potenze marinare rivali e quasi “sorelle”, ma i francesi recentemente le hanno buscate (nel 1763 la Francia cede il Canada a seguito della “guerra dei sette anni”, ndr), e hanno dovuto accettare nel trattato di pace una dura condizione commerciale: pertanto devono fornirsi unicamente dal Canada (ora inglese) di tutto l’equipaggiamento per la cavalleria e dei pellami lavorati. Parimenti, gli Inglesi pretendono di essere l’unico partner commerciale di Svezia e Danimarca per quanto riguarda le materie prime necessarie alla cantieristica navale: legname, ferro, rame (nel 1756 l’Inghilterra si era schierata con la Prussia contro la lega antiprussiana di cui facevano parte appunto Svezia e Danimarca, e pertanto, dopo la vittoria, partecipava ai benefici commerciali sanciti dal trattato di pace del 1759, n.d.r.).
Così tutti i popoli, opportunamente messi in riga, devono tutto dare, accontentandosi del poco concesso benevolmente dagli Inglesi. Ma è tra Inglesi e Olandesi che son fuochi e fiamme, perché non hanno nulla da barattare, e gli uni non vogliono cedere il passo agli altri (nel 1780 l’Olanda si trovò in stato di guerra con l’Inghilterra a causa degli aiuti forniti alle colonie ribelli del Nordamerica; l’A. scriveva dopo che Napoleone aveva occupato nel 1795 l’Olanda, che fu denominata Repubblica Batava, n.d.r.). Quanto alle merci, entrambi salano aringhe, producono terribili formaggi, confezionano stoccafisso e pescano balene: logico che li divori l’invidia, e si scambino schioppettate in mancanza d’altro. Ma questa guerra non riguarda soltanto loro: grazie al gran Colombo, c’è dentro l’intera Europa, ormai fuori di testa per il monopolio del tabacco o per il mercato delle acciughe, del tonno e del rombo.
Libera interpretazione
Chiariamo subito che Alfieri non era affatto un antibritannico viscerale (era invece, per sua stessa ammissione, visceralmente antifrancese, e con una certa autoironia spiegò anche il perché). Era stato a Londra più volte, ammirava l’Inghilterra per la libertà, l’ordine e la pulizia che vi regnava (la rivoluzione industriale non aveva ancora riempito di smog le verdi vallate, le bianche casette e i polmoni di una classe proletaria non ancora nata); di più, si divertiva come un matto a travestirsi da cocchiere e guidare la propria carrozza all’impazzata creando nel cuore della City ingorghi mai visti e litigando come un carrettiere con i…colleghi. E infine, si era preso una cotta memorabile per lady Penelope Pitt, al punto da doversi misurare in duello con il visconte Ligonnier, colonnello della Guardia Regia e legittimo consorte. Fu risparmiato dopo un graffio, perché quanto a spadaccino valeva zero, e in più aveva duellato con un braccio al collo, in seguito a una rovinosa caduta da cavallo (ottima scusa). Insomma, amava l’Inghilterra e gli inglesi di entrambi i sessi, fatte le debite differenze, così come amava l’Olanda e le olandesi (qui la cotta fu raffreddata, dopo un po’, dalla spasimata, senza altre conseguenze perché l’attempato marito era di più ampie vedute). In sostanza, qui non si tratta di “odio”: la critica è squisitamente filosofico-politica; e dove sta la carica satirica? E’ chiaro che chiamare “libera concorrenza” un affare trattato a suon di cannonate fa davvero ridere. Ma non fa ridere tutti, se – come dicono – il Cancelliere Bismark teorizzava che la guerra non è che uno dei tanti modi di fare politica. E nemmeno oggi fa ridere. Tanto per restare in tema, le multinazionali della pesca non farebbero complimenti se qualcuno decidesse di far chiarezza sui milioni di tonnellate di cosiddetto tonno che le mode - indotte sapientemente - fanno ingurgitare ai milioni di sprovveduti che popolano i supermercati dell’orbe terracqueo.
TESTO (94-111)
Ma in cotai sudiciumi omai mi stracco.
Io tronco il nodo, e dico in un sol motto 95
che il commercio è mestiero da vigliacco;
ch’ogni virtude, ogni bontà tien sotto;
ch’ei fa insolenti i pessimi; e i legami
tutti tra l’uom più sacrosanti ha rotto.
Nei mercanteschi cuor, veri letami, 100
non v’ha né Dio né onore né parenti,
che bastin contro le ingordigie infami;
né patria v’ha; che abbiam gli esempi a centi
di mercanti, che vendon di soppiatto
e palle, e polve, e viveri, e strumenti 105
micidiali, a chi pur vuol disfatto
lo Stato loro, e in viva guerra uccide
i lor fratelli e figli a brando tratto.
Il vendi-sangue, intanto imborsa e ride;
ch’ei quanto vile, stupido, non scerne 110
che avrà sua borsa chi il suo suol conquide.
Trascrizione attualizzata
Mi sono stufato di queste sconcezze; la smetto, dicendo in breve che il commercio è mestiere da vigliacchi: primo, perché si considera superiore a tutto ciò che c’è di buono nell’uomo; poi perché rende arroganti i peggiori soggetti; infine, perché ha spezzato tutti i più sacrosanti legami capaci di mantenere unita l’umanità.
Nei cuori mercanteschi – autentiche fogne – non c’è né Dio né senso dell’onore o dei rapporti parentali che siano in grado di contrastare le infami ingordigie; e neppure il senso della patria, viste le centinaia di esempi che abbiamo sotto gli occhi, di mercanti che vendono di contrabbando munizioni, vettovagliamenti, armi micidiali anche a chi aggredisce il loro paese e ammazza in guerra aperta i loro fratelli e figli. Sono dei venditori di sangue, contenti soltanto di intascare soldi. Vili quanto idioti, perché chi conquisterà il loro paese si impadronirà anche dei loro soldi.
Libera interpretazione
Il Poeta punta direttamente su quello che per lui è il centro del problema: la politica di rapina illustrata finora con tanta ricchezza di documentazione proviene dal cuore degli uomini peggiori, fogne del genere umano. Politica ed etica sono intimamente legate, fare una politica o un’altra è frutto di scelte responsabili, dunque moralmente valutabili. L’antimilitarismo alfieriano – che verrà in piena luce nella satira XIV - dice che la guerra è frutto di vergognose ingordigie mercantili, non di nobili sentimenti patriottici, ed ha bisogno di gente senza scrupoli per essere in qualche modo giustificata agli occhi degli onesti.
Il mercato di rapina e la guerra – come si è dimostrato – sono due facce della stessa medaglia.
All’esatto contrario di quanto vuol far credere la retorica di regime, Alfieri insegna che il Dio Mercato non costruisce nulla, anzi demolisce quanto di più sacro c’è nel cuore umano, crea gli odi e “vigliaccamente” ci mangia sopra, sostituisce l’amor di patria con l’amor di arricchimento indebito, a costo di spegnere il lume della coscienza morale. E’ chiaro il rapporto tra il mercato delle armi e la società consumista e cialtrona che ingrassa sulla morte dei poveri ma non vuole saperlo..
Fra “le centinaia di esempi” di mercanti d’armi sopra evocati, Alfieri pensava certamente a dei furfanti concreti: con le guerre napoleoniche, lo sciacallaggio delle armi sui campi di battaglia era una pratica corrente, per cui il mercato clandestino degli armamenti non poteva che prosperare. E poi, la guerra è guerra, e l’assassinio collettivo - con tutto ciò che lo rende possibile – è ampiamente legalizzato e pienamente condonato. Il quinto e il settimo comandamento sono abrogati per decreto di governo, con la demolizione di ogni senso civico e morale, religioso o no.
Come meglio dirà nella Satira Undecima (vv.55-57) le alate dichiarazioni di principio, limpide e cristalline come ruscelli di montagna, diventano letame appena entrano nella fogna: è la metamorfosi che subiscono i tanti discorsi patriottici e i fervorini moraleggianti in bocca a personaggi impresentabili.
Alfieri insiste: il Culto del dio Commercio ha prodotto un’umanità transgenica, nella quale ha sostituito il cuore con il portafoglio.
Non c’è niente che non si possa comprare e vendere, e un maggiore guadagno giustifica qualunque cosa: il lavoro minorile con orari impossibili, le lavorazioni inquinanti, la mancanza di sicurezza nei cantieri, il traffico d’armi e di manodopera in nero, il mercato della droga, le discariche tossico-nocive, il turismo sessuale, la schiavitù e la tratta dei corpi, la compravendita degli organi umani.
Quanto basta per qualificare come un “vero letamaio” il “cuore mercantesco”, che trova del tutto normale passar sopra a ogni sentimento che non siano le ingordigie infami: né la fede in Dio, né il piacere dell’onestà, né i legami di parentela.
L’Alfieri, dopo aver documentato l’infamia delle operazioni mercantili portate avanti dalle potenze europee (vv. 39-93) con l’appoggio di flotte ed eserciti, conclude con una sentenza lapidaria: il Commercio è mestiero da vigliacco: ch’ogni virtude, ogni bontà tien sotto;
ch’ei fa insolenti i pessimi, e i legami tutti tra l’uom più sacrosanti ha rotto.
Pare trasparente l’allusione al legame più sacrosanto che è la fraternità universale, peraltro ufficialmente proclamata nella rivoluzione francese, ma presto rinnegato nei fatti dalla ricca borghesia che aveva promosso Bonaparte come promotore del Mercato (l’industria francese decollò grazie alle forniture militari)
Neppure l’amor di patria (ma quale patria?) è un sentimento sufficiente a trattenere un “cuor di fogna” dall’ingordigia infame che lo muove: sono centinaia i trafficanti che praticano il contrabbando d’armi e di tutto ciò che serve alla guerra, senza tener conto del fatto che chi compera le loro merci può benissimo usarle contro i loro stessi connazionali e la loro patria. Perché la loro patria, in realtà, è l’anonimato dei paradisi fiscali e le matrioske di infinite società off-shore.
Il nostro modello di vita fa di tutti noi i mercenari (perlopiù inconsapevoli, e zittiti con quattro soldi) di un esercito di occupazione che rastrella ricchezze nel restante novanta per cento del pianeta a esclusivo vantaggio di strette minoranze di famiglie straricche. Se in qualche momento si profila il pericolo di una presa di coscienza collettiva, i poteri forti giocano sulla politica dei redditi, dei prezzi e dei consumi, in modo da ostacolare nei cittadini la volontà di riscatto con lo spauracchio della miseria. E talvolta la minaccia viene messa in pratica, e la miseria arriva veramente, con manovre che provocano l’annullamento dei risparmi di un’intera vita per intere popolazioni.
Il problema si pone: come ribellarci, come praticare la renitenza, l’insubordinazione e la diserzione, per negare la solidarietà e il favoreggiamento a questo sistema dell’impero globale?
TESTO (vv. 112-144)
Qui scatenarsi ascolto le moderne
frasi dei nostri illuminati ingegni,
che tengonsi astri e non son pur lucerne.
In tue rimuccie, a sragionar tu insegni, 115
stolto, ignorando che il Commercio è il nerbo
primo e sol, di Repubbliche e di Regni.
A voi, che avete il fior del senno in serbo,
fingendo io pur che m’è il connetter dato,
risponderò incalzante, e non acerbo. 120
Non si impingua né Popolo né Stato
Mai pel Commercio, se dieci altri in pria
Vuoti ed ignudi non fan lui beato.
Ma breve è ognor beatitudin ria:
dovizia, e lusso, e i vizi tutti in folla, 125
fan che a chi la furava amara sia.
Né, perch’un popol mille antenne estolla,
cresce ei di gente in numero infinito,
che il mar ne nutre assai, ma più ne ingolla.
Pur, poniam vero il favellar sì trito 130
che duplicati e triplicati apporta
gli uomini dove è il trafficar fiorito;
al vero onor d’umanità che importa,
che di tai bachi tanti ne sfarfalli,
sol per moltiplicar la gente morta? 135
Molte le mosche son, più molti i Galli;
ma non è il molto, è il buon, quel che fa pregio:
se no, varrian più i Ciuchi che i Cavalli.
Sempre molto è quel Popolo ch’è egregio,
e quanto è picciol più, vieppiù destarmi 140
de’ maraviglia, s’ei d’alloro ha il fregio.
Religione, e leggi, e aratro ed armi,
Roma fean; cui Cartago mercantessa
Men che rivale, ancella, in tutto parmi.
Trascrizione attualizzata
A questo punto mi par già di sentirli, gli illuminati ingegni della moderna filosofia, che si prendono per stelle di prima grandezza e nemmeno son lucciole: “Idiota, tu stai fuorviando il Popolo con le tue poesiole! Non sai che il Commercio è l’unica e più importante spina dorsale degli Stati?” Rispondo senza acrimonia, come se anch’io fossi in grado di ragionare: nessun Popolo, nessuno Stato si arricchisce con il Commercio, se prima non ne svuota e spoglia altri dieci. Ma la felicità di malacquisto dura sempre poco: la ricchezza, il lusso e tutta la schiera dei vizi che ne conseguono, si incaricano di amareggiare la vita a chi se l’è procurata con il furto.
Del resto, non è che un popolo cresca all’infinito per il sol fatto di possedere enormi flotte: il mare dà da mangiare a molta gente, ma ne inghiotte anche di più. Tuttavia. diamo per buona la vecchia favola che, dove fiorisce il Mercato, la popolazione raddoppia e triplica: e allora? La quantità non è la qualità, e che senso ha far nascere tanta gente solo per moltiplicare il numero dei morti? Ci sono più francesi che mosche, e se quello che conta è il numero, allora gli asini valgon più dei cavalli. Un popolo nobile è sempre grande, e quanto più è piccolo, tanto più devo ammirare la sua grandezza. Roma si è affermata grazie alle proprie leggi e virtù civili, mentre Cartagine, potenza commerciale aggressiva, non ha retto al confronto.
Libera interpretazione
Alla lezione di geopolitica, segue quella di filosofia, sul tema “Gli errori più comuni del PUN (Pensiero Unico Neoliberista)”. Cavaliere solitario in una prateria di Signorsì (la “maggioranza silenziosa”), Alfieri riesce persino a restare calmo e a discutere pacatamente. Come nella caccia alla volpe, l’Autore è solo a correre davanti a un esercito di aristocratici e di lacchè, oltre agli stupidissimi loro cani, addestrati a uccidere per una scodella di sbobba. Egli si identificava anche con il mito del popolo romano (insisteva sempre nel precisare che per lui Roma era finita nel momento stesso in cui aveva cessato di essere una libera repubblica per diventare un impero). Duecento anni dopo, un altro piemontese solitario - Norberto Bobbio - avrebbe detto che la storia dell’umanità è stata dominata dalla volontà di potenza, non dalla volontà di capire, guidata dalla ragione; e che compito del filosofo è far trionfare la ragione. Poi, citando Carlo Cattaneo, altro uomo solo, avrebbe sostenuto che “la filosofia è una milizia”. E Noam Chomsky: “Da quando ho sviluppato una coscienza politica, mi sono sempre sentito solo, e parte di una piccola minoranza”.
Non s’impingua né Popolo né Stato mai pel Commercio, se dieci altri in pria vuoti ed ignudi non fan lui beato. (vv. 121-123)
In sostanza – dice Alfieri – il Commercio da solo non è in grado di produrre ricchezza in misura sufficiente da “impinguare” cioè ingrassare, un popolo o uno Stato.
La ricchezza dei paesi ricchi è inevitabilmente frutto di un permanente intervento di spoliazione ai danni dei paesi impoveriti da cinquecento anni di imperialismo economico e militare messo in opera dall’Occidente.
Non ci sarebbero paesi “sottosviluppati” se non ci fossero governi “sottosviluppanti”.
L’Alfieri azzarda anche una valutazione statistica, stimando che il rapporto tra ladri e derubati sia di uno a dieci. Questa cifra non è lontana dalla realtà scientificamente provata. In base alle ricerche storiche, le popolazioni di tutti gli imperi – assiro-babilonese, egiziano, romano compresi - contavano un dieci per cento di ricchi che costituivano la classe dirigente, e assorbivano le ricchezze prodotte dal restante novanta per cento. Nella civilissima Roma la povertà veniva sapientemente addomesticata con periodiche pubbliche elargizioni di generi alimentari, per non rischiare – da un lato – rivolte incontrollabili causate dalla fame e non permettere – dall’altro - lo svilupparsi di movimenti di liberazione, tenendo sotto controllo la “classe media”. Lo schema è sempre quello.
L’Azienda-Occidente di oggi è ben lontana dal potersi presentare come efficiente: essa è un’azienda assistita, poiché sopravvive soltanto grazie alla quotidiana rapina perpetrata nel resto del mondo. Sulle nostre tavole - come su quelle dell’illuminato Settecento - nei nostri motori, nelle nostre case, nei nostri armadi, nei nostri ospedali, nelle nostre stesse biblioteche e nelle nostre chiese si trovano abbondanti giacimenti di refurtiva sottratta a popolazioni che a causa di ciò muoiono di malattie banali, di fame e di veri e propri interventi di genocidio.
Fa fede l'Archivio delle Indie: solo fra il 1503 e il 1660 sono arrivati in Europa 185mila chili d’oro e 16 milioni di chili d'argento saccheggiati nel Nuovo Mondo (senza contare quelli affondati lungo il tragitto). Lo sviluppo del capitalismo occidentale è partito di lì.
TESTO (vv.145-166 - fine della satira XII)
Quand’anche or dunque differenza espressa 145
il non-commercio faccia in men Borghesi,
non fia poi cosa, che un gran danno intessa.
Liguria avrìa men muli e Genovesi ;
sarian men gli Olandesi, e più i ranocchi,
nei ben nomati in ver Bassi Paesi: 150
ma che perciò, vi perderemmo gli occhi
nel pianger noi lo scarso di tal razza,
che, decimata, avvien che ancor trabocchi?
In qualche error, ma sempre vario, impazza
ogni età: Cambiatori, e Finanzieri; 155
gli Eroi son questi, ch’oggi fa la Piazza:
questi, in cifre numeriche sì alteri,
ad onta nostra, dall’età future
faran chiamarci i Popoli dei Zeri.
Ma morranno anche un dì queste imposture 160
come tant’altre ch’estirpò l’Obblio:
e si vedrà, basi malferme e impure
aver gli Stati, ove il Commercio è Dio;
e tornerassi svergognato all’Orco,
donde, uccisor d’ogni altro senso uscìo, 165
quest’obeso impudente idolo sporco.
Trascrizione attualizzata.
Poniamo pure che rinunciando all’idolatria del Mercato si riduca il numero dei “nuovi ricchi”: non sarebbe poi un gran danno. Meno muli e genovesi in Liguria, meno olandesi e più ranocchi in Olanda: dovremmo disperarci per questo? Per quanto si riducano, sono sempre troppi.
Ogni epoca sbaglia strada infatuandosi per qualche follìa: oggi è la volta di cambiatori e i finanzieri, i nuovi Eroi, proclamati in Piazza Affari. Pavoneggiandosi tra un polverone di cifre, fanno sì che, con nostra somma vergogna, saremo riconosciuti dai nostri discendenti come i Popoli degli Zeri.
Ma anche questa sbornia sarà finalmente sbugiardata, come tante altre che sono ormai sepolte nel dimenticatoio della Storia: e allora verrà in chiaro che gli Stati fondati sull’adorazione del Dio Mercato si reggono su basi sordide e malsicure. Si scoprirà l’inganno di questo idolo obeso e sfacciato, che cancella ogni altro sentimento, e che se ne tornerà all’inferno da cui è uscito.
Libera interpretazione
Una sciabolata di sarcasmo conclude il complesso discorso, finora minuziosamente fondato su dati di fatto; genovesi e olandesi diventano il simbolo della borghesia rampante che sta prendendo il potere in Europa e, di conseguenza, nel mondo occidentale sulle due sponde dell’Atlantico. Napoleone era notoriamente sostenuto dalle consorterie della borghesia mercantile che si arricchiva con i profitti di guerra, e mirava alla conquista dei mercati internazionali, mentre la Santa Alleanza non aveva alcuna intenzione di farsi soffiare la consueta rendita di posizione. La conclusione, di taglio enfaticamente profetico, prevede il crollo della religione del Denaro Onnipotente. La profezia è anche sempre un messaggio etico: la caduta dell’Idolo è inevitabile perché il suo fondamento essenziale è la menzogna.
Avevamo detto che l’attacco alfieriano agli inglesi, francesi e olandesi, non è motivato da una sua personale antipatia per questi popoli, ma da una precisa scelta filosofico-politica; altrettanto si deve insistere nel dire che il suo obiettivo non sono i privati esercenti e operatori del dettaglio, i quali, per vivere, svolgono onestamente un’attività oggettivamente colpevole, così come gli operai in acciaieria producono materiali che altri destinano all’orribile uso militare. Basti dire che il migliore amico di Alfieri – forse il suo unico vero amico – era Gori Gandellini, un senese negoziante di stoffe.
La satira successiva (la tredicesima, I Debiti) viene preannunciata da quei pochi versi folgoranti e spietati: la moda impone la sua follìa ad ogni cambio di stagione: oggi è la volta dei banchieri “creativi” e venditori di bugie avvolte in carta straccia, che ci incantano aggiungendo file interminabili di zeri ai loro conti fantomatici. Tutti ormai capiscono a volo quanto sia azzeccata la definizione alfieriana, discendente ultimo di una antica dinastia di prestasoldi: hanno fatto di noi “il popolo degli zeri”. Non dimentichiamo, tuttavia, che uno stupido è uno stupido, ma un milione di stupidi è una forza storica.
E si vedrà basi malferme e impure aver gli Stati dove il Commercio è dio. E tornerassi svergognato all’Orco, donde, uccisor d’ogni alto senso uscio, quest’obeso, impudente idolo sporco. (vv. 162-164).
Alfieri, come ogni profeta, è sicuro del fatto suo, ed è ottimista. Gli idoli non possono durare e tutto questo traballante scenario crollerà di botto, dove si è puntato tutto sulla fede cieca nelle virtù taumaturgiche del dio Mercato. Quando saranno venuti alla luce i suoi misfatti, questo idolo sporco imbottito di nulla, fondato su basi inconsistenti e immorali finirà comunque per tornarsene all’inferno da cui è uscito.
La profezia alfieriana non concede margini di salvezza. La via d’uscita non può essere altro che una pronta inversione di marcia, termine laicale per definire la conversione, la restituzione del maltolto e la riprogettazione di un mondo diverso possibile.
Naturalmente, questo discorso ha fatto sì che Alfieri venisse immediatamente classificato come nemico del progresso, della modernità, degli immarcescibili destini della felicità uversale, incapace di vedere l’alba delle “magnifiche sorti e progressive” di un mondo ormai trionfalmente incamminato verso la realizzazione del Paradiso Terrestre.
I mercanti di prodotti culturali di consumo hanno ritenuto che le sue Satire fossero un piatto indigesto e poco vendibile nei fast food della cultura di massa; effettivamente, per chi è abituato a succhiare caramelle, a masticare gomma o a nutrirsi di “nonsocché alla maionese” si presentano come una cura da cavallo, e quelli che non hanno ancora scoperto o non intendono affatto scoprire di aver bisogno di una medicina preferiscono dileguarsi.
Il pensiero politico alfieriano e il suo intransigente messaggio morale, libero da ogni traccia di ideologismo e irrecuperabile per qualunque clan di potere, spiega come la cultura ufficiale lo abbia ricevuto con un immediato fastidio e “messo in naftalina”.
Forse è venuto il momento per “scatenarlo”, levandolo dai ceppi del “politicamente corretto”
IL COMMERCIO
Perditus, ac vilis, sacci mercator olentis
Giovenale, Sat XIV, 269
Trafficator di sozze merci vile.
Il pensiero politico di Alfieri è frutto della conoscenza della realtà socio-economica a lui contemporanea, ottenuta dall’ascolto di testimoni privilegiati, quali erano i nobili piemontesi disseminati nelle varie sedi diplomatiche dei paesi da lui visitati, e gli antichi condiscepoli d’Accademia ormai in carriera presso le corti europee; ma anche dall’assidua frequentazione degli autori classici oltre che dei moderni, quali Machiavelli, Montaigne e Rousseau. Un intellettuale atipico e un nobile del tutto fuori posto, affatto inconciliabile con un Pietro Metastasio, che in quegli stessi anni frequentava i salotti e le corti, ma con tutt’altro intendimento, riscuotendo dall’Alfieri lo sprezzante epiteto di “musa appigionata”, essendo stato visto eseguire la “genuflessioncella d’uso” all’indirizzo dell’imperatrice Maria Teresa d’Austria.
Il lusso delle parures e la ricercatezza dei menu suscitavano nel poeta piemontese risonanze ben diverse dall’ammirazione espressa dallo stuolo osannante dei cortigiani: gli parlavano di guerre coloniali, soprusi e rapine militarmente organizzate e legalizzate da Graziose Maestà coronate, tutte talmente simili le une alle altre da odiarsi a vicenda, soprattutto all’aprirsi dei problemi di successione.
Intanto, in Inghilterra si andava sviluppando il contrasto tra i grandi agrari e i capitalisti, gli uni aggrappati alla rendita fondiaria e gli altri a quella manifatturiera, entrambi incapaci di concepire l’arricchimento e lo sviluppo in termini di bene comune. Filosofi, economisti e sociologi concedevano la loro benedizione condizionata a quel tumultuoso scatenarsi della giungla mercantile del nuovo vangelo liberista, considerandola un male necessario ma transitorio, destinato a dissolversi da sé non appena – grazie ad esso – l’umanità avrebbe raggiunto uno stato generale di benessere molto vicino alla felicità, previsto entro pochi decenni.
Il verso di Giovenale che l’autore pone come linea-guida all’intera Satira evidenzia i fue aspetti del “commercio” secondo Alfieri: la “viltà” (la meschinità-vigliaccheria del “mercante” e la “sozzura” delle merci trattate (quanto siano inquinate e inquinanti le mercanzie che dominano il moderno “mercato globale” è ormai universalmente noto).
In questa geniale satira, Alfieri non si perde a sbertucciare con i soliti luoghi comuni li piccolo esercente della bottega sotto casa, ma punta direttamente sulla impresentabile mistificazione dell’economia di mercato di dimensioni globali. Per primo percepisce la connessione tra l’imperialismo, lo schiavismo e il razzismo. Nelle due satire seguenti (Tredicesima e Quattordicesima) si completa la Trilogia sociopolitica che ha il valore di un affresco di ampio respiro, smascherando i trucchi dell’alta Finanza e la militarizzazione dell’economia mercantilista.
Alfieri, controcorrente, non rinuncia alla scomoda posizione del convitato solitario, isolato come un menagramo iettatore, che fiuta il lezzo di cadavere sotto le pompose livree, le voluminose crinoline e le incipriate parrucche lanciate in vorticosi minuetti, su cui incombe l’ombra sinistra del cataclisma.
Una voce sgradevole, come sempre quella del profeta di sventure, che i sovrani preferiscono ignorare, per non essere obbligati a prendere decisioni sgradite alla corte e ai grandi elettori, come comandanti che non osano interrompere l’orchestrina mentre la nave affonda.
TESTO (vv. 1-18)
E in te pur, d’ogni lucro idolo ingordo,
Nume di questo secolo borsale,
un pocolin la penna mia qui lordo:
ch’ove oggi tanto oltre il dover, prevale
quest’accecato culto onde ti bei 5
dritt’è ch’io ti saetti alcun mio strale.
Figlio di mezza libertade il sei,
nol niego io già, ma in un mostrarti padre
vo’ di servaggio doppio e d’usi rei.
Ecco: ingombri ha di prepotenti squadre 10
la magra Europa i mari tutti; e mille
terre farà di pianto e di sangue adre.
Sian belligere genti o sien tranquille;
abbiano o no metalli, indigo e pepe;
di selve sieno, o abitator di ville; 15
tutti stuzzicar densi, ovunque repe
quest’insetto tirannico Européo
per impinguar le sue famelich’epe.
“Un mostro s’aggira per l’Europa: l’idolatria del Mercato, il dio di questo tempo dominato dalla borsa. Me ne voglio occupare, a costo di sporcarmi alquanto la penna, ma devo assolutamente farlo, perché il culto del Mercato sta togliendo alla gente il lume degli occhi, molto oltre i limiti della ragionevolezza.
Dicono che il Mercato non mette radici dove non c’è un minimo di libertà: non lo nego, ma quello che voglio dimostrare è che esso produce il doppio di schiavitù e di consuetudini criminose.
Presto visto: questo nostro avido Occidente ha occupato tutti gli oceani con le sue prepotenti flotte, e sta avvolgendo mille popoli in una notte di lacrime e sangue. Non importa che si tratti di popoli bellicosi o tranquilli, che possiedano o meno giacimenti di materie prime o colture di droghe, che siano civilizzati o selvatici, tutti li deve provocare, ovunque riesca a strisciare questo tirannico insetto che è la civiltà occidentale, per arricchire la sua fame insaziabile.
Libera interpretazione
IL DIO MERCATO
L’Europa complessivamente presa – e non soltanto i singoli Stati che la compongono – è il bersaglio di questa Satira Duodecima. Ma l’Europa per Alfieri sta al diquà come al dilà dell’Atlantico: quelli che noi conosciamo come “Stati Uniti d’America” erano i possedimenti d’Oltremare dell’impero britannico, affrancatisi solo
una decina d’anni prima dalla madrepatria, allo scopo di sfruttare in proprio e non per conto terzi i territori colonizzati.
Alfieri si ribella in profondità alle basi stesse dell’architettura economico-sociale dell’Europa del suo tempo. Una ribellione “trasversale”, come si dice oggi, che prosciuga la fonte stessa della potenza europea, mostrando l’immoralità dei suoi presupposti.
Cresciuto nell’assurda disciplina dell’accademia militare, se ne sottrasse al più presto con una istintiva e fondamentale obiezione di coscienza; attraverso i suoi viaggi e le confidenze raccolte nelle ambasciate e nelle corti, egli aveva maturato poi la convinzione che i titolari del potere escono tutti da un unico stampo, giovani o vecchi, buoni o tristi, uno o molti, ereditari o elettivi, usurpatori o legittimi che siano; tutti imparentate tra loro, le corti europee si comportano tutte secondo un’unica logica. Agli occhi di Alfieri, l’unità europea, sotto questo aspetto, è un fatto acquisito, le cui radici affondano nella comune vocazione dei suoi governi all’arroganza infinita e al delirio di onnipotenza.
Spinte dalla accecata religione del dio Mercato, le prepotenti squadre di questa magra Europa, (affamata e immiserita dalle ingiustizie sociali, dalle guerre continue, dalle epidemie e dalle eccezionali carestie, ancor più che dalla scarsità dei beni naturali) ingombrano i mari tutti.
Secondo il pensiero politico alfieriano non si può negare che il Mercato sia figlio di una “mezza libertà”, ma è padre di schiavitù e corruzione in doppia misura (servaggio doppio ed usi rei) perché soltanto chi può schierare potenti flotte ed eserciti agguerriti potrà godere della necessaria libertà di mercato. E le flotte europee, in nome di tale libertà mercantile, portano provocazione e rapina a mano armata ai quattro angoli del mondo.
Con un’analisi precisa, viene descritto il meccanismo dell’oppressione economica (l’esatto contrario della sbandierata libertà) esercitata dalle massime potenze europee sulle popolazioni subalterne. Il conte Alfieri profeta della contestazione globale? Di fatto la sua Satira Dodicesima è una furiosa filippica contro l’ipocrisia del mercantilismo settecentesco, negando le favole della libera iniziativa e dei benefici della concorrenza. Il mercato internazionale – dice il signor conte - funziona solo se può contare su flotte agguerrite e rapine di dimensione planetaria.
Una bestemmia, un sampietrino nella sfavillante vetrina dell’opulenza europea.
TESTO(vv. 19-33)
Stupidi e ingiusti noi, sprezziam l’ebreo
che compra e vende, e vende e compra,
e vende; 20
ma siam ben noi popol più vile e reo:
che, non contenti a quanto il suol ci rende,
dell’altrui ladri ove il furar sia lieve,
facciam pel globo tutto a chi più prende.
l’atroce Ispano, e il vitto agl’Indi tolto
dall’Anglo, che il suo vitto agl’Indi deve.
Se in fasce orrende, al nascer suo, ravvolto
mostrar volessi il rio Commercio, or fora
il mio sermone (e invan) prolisso molto. 30
Basta ben sol, che la sua infamia d’ora
per me si illustri, appalesando il come
l’iniqua Europa sue laidezze indora.
Trascrizione attualizzata
Colonialismo e razzismo, le due facce della nostra “civiltà superiore”. Stupidi e ingiusti, noi europei, disprezziamo gli ebrei che campano di compravendita, mentre pratichiamo la rapina planetaria e la chiamiamo “organizzazione mondiale del commercio”: questo sì, fa di noi un popolo spregevole e criminale. Abbiamo abbandonato l’agricoltura come troppo poco redditizia, e ci siamo messi a scorrazzare per il mondo facendo a chi più ruba le risorse altrui, dovunque lo si possa fare a man salva. Qualche esempio? Gli Spagnoli succhiano atrocemente il sangue degli Indios americani, e gli Inglesi si nutrono di quanto estorcono agli Indiani, affamandoli. La storia del Commercio, a partire dalle sue origini, è orribile. Ma lasciamo stare il passato: basta guardare come l’Europa di oggi nasconde sotto gli orpelli di un lussuoso mantello la propria indecenza morale.
Libera interpretazione
Un diamante e’ per sempre? In Angola, in Congo, in Sierra Leone il mercato dei diamanti (gestito dagli europei, in nome dell’attuale organizzazione mondiale del commercio) ha fatto 3,7 milioni di morti: è scritto su tutte le riviste di attualità economico-politica, ed è la naturale prosecuzione dell’amara satira alfieriana che stiamo leggendo. Con essa, il suo Autore entra nella serie dei grandi utopisti moderni che hanno lottato per frenare la deriva dell’umanità drogata dal delirio di onnipotenza che chiamano “ricchezza”; oltre ad essi, il mito dell’antica romanità repubblicana costituiva per l’Alfieri una sorta di età dell’oro della probità politica, una prova storica del fatto che un altro mondo è possibile, e quindi è possibile un altro pensiero, in alternativa al pensiero unico liberista di cui i suoi contemporanei inglesi (Jeremy Bentham e Adam Smith, ad esempio) stavano gettando le basi, per giustificare il sogno (quanto inconsistente oggi lo vediamo) di una rivoluzione industriale che avrebbe dovuto portare finalmente gli uomini alla felicità nel volgere di pochi decenni.
Ad esso, questo piemontese spiemontizzato (un apolide che aveva scelto il volontario esilio da una patria che pure amava) oppone l’affascinante leggerezza della poesia-utopia, intesa come unico vero fondamento per un futuro sostenibile di un’umanità a perenne rischio di abbrutimento.
Arti, lettere, onor, tutto è stoltezza,in questa età dell’indorato sterco che il subitaneo lucro unico apprezza…l’iniqua Europa sue laidezze indora. (vv. 44-45, 33)
Il subitaneo lucro ricorda molto da vicino i “sùbiti guadagni” iscritti da Dante Alighieri fra le cause della rovina della sua Firenze (Inferno, 16,73) e che Alfieri aveva posto all’inizio della Satira Terza (La Plebe) : la dimensione etica della satira alfieriana emerge in tutta la sua severità. Il lusso, che qui viene molto duramente definito indorato sterco, è solitamente presentato dalla propaganda di regime come “alta qualità della vita” e indicatore di alto benessere economico e sociale (oggi si chiama PIL): una martellante campagna di menzogne ci fa credere che possedere e ostentare oro e diamanti sia un elemento nobilitante, e assimilare questa cultura significa rendersi complici dei crimini organizzati e commessi in loro nome.
Di più, si tratta di “indorato sterco” perché in realtà sono beni che non possiedono un vero valore in sé (come, invece, i prodotti della terra che servono alla vita) ed è soltanto la loro rarità – artificiosamente procurata e abilmente mitizzata – che rende tanto alta la loro quotazione.
Non solo le corti, ma le religioni stesse cadono in questo gioco perverso, profondendo oro e gemme nelle suppellettili sacre, divinizzando e benedicendo così un equivoco millenario. E con l’oro e i diamanti l’Europa iniqua, ingiusta, copre di lustrini le sue impresentabili vergogne, senza far sapere al gran pubblico che l’estrazione e la commercializzazione dell’oro e dei diamanti avviene in condizioni a dir poco inigieniche e malsane, quando non è apertamente criminogena e sobillata come tale da impassibili managers che la dirigono a colpi di telefono da uffici ovattati e ben refrigerati a migliaia di chilometri di distanza, con l’impiego di truppe mercenarie e mestatori privati che mandano al macello schiere di bambini-soldato, abusati e arruolati non appena siano in grado di reggere un’arma.
Così i media prezzolati (i gazzettieri amici) potranno continuare a straparlare di “guerre tribali”, per confermarci nel pregiudizio che esistono per natura (o per volontà divina) le “razze inferiori” e che l’Occidente deve far loro la cortesia di dominarle perché non sapranno mai governarsi da sé.
TESTO (vv. 34-51)
Annichilate, impoverite, o dome
per lei le genti di remote spiagge, 35
di alloro no, di baccalà le chiome
orniamole; poiché lustro ella pur tragge
dai tanti navigati fetidumi,
che a forza vende come a forza estragge.
Batavi, ed Angli, di quest’arte i Numi 40
fatti or ben son da lor natìa scarsezza,
ma immercantati ci han troppo i costumi.
Arti, lettere, onor, tutto è stoltezza
in questa età dell’indorato sterco,
che il subitaneo lucro unico apprezza. 45
Traccie d’amor di gloria invan qui cerco,
né di pietà religiosa l’orme.
Chi sei? Che fai? Son tutto: io cambio o merco.
In mille, e inique tutte, vili forme
tiranneggiar questo risibil Mostro 50
veggio: e virtù, non mercantessa, dorme.
Trascrizione attualizzata
Merita, questa Europa, la corona di Regina del Baccalà: solca gli oceani il fetore delle sue flotte mercantili, cariche del bottino che ha sottratto con la violenza a lontane popolazioni costiere che vivono di pesca, annientandole dopo averle messe in ginocchio e ridotte in miseria: bottino che con la violenza vende dettando le proprie condizioni
Olandesi e Inglesi sono diventati gli dei di quest’arte, visto che di roba loro ne hanno ben poca; ma hanno finito per farci credere che è il Mercato a stabilire ciò che è giusto o non lo è, in questo luccicante mondo di merda, in cui si è apprezzati soltanto per l’arricchimento rapido e improvviso.Hai un bel cercare qualche traccia d’amor proprio o di pietà religiosa: per essere qualcuno devi essere un finanziere o un commerciante di successo. Guardiamoci in giro: grazie al sonno degli onesti, questo ridicolo mostro spadroneggia in mille modi, tutti disonesti.
Libera interpretazione
Il Nostro ha imparato bene la lezione di Orazio e Giovenale: dal primo ha assimilato il distacco aristocratico dell’analisi della realtà, dal secondo la vena plebea, aggressiva e graffiante.
L’elaborazione delle Satire durò vent’anni; aveva ventotto anni quando aveva cominciato a pensarci, dopo i grandi viaggi giovanili e lo sconvolgente incontro con don Tommaso Valperga di Caluso, fratello dell’ambasciatore. piemontese a Lisbona. Possedeva ormai un bagaglio di informazioni riservate, i retroscena della politica europea - che era la politica atlantica di allora - e sui fermenti rivoluzionari dei coloni inglesi e della borghesia francese. Il diluvio era ormai nell’aria: Alfieri, rinnegato, anarchico, libertino, libertario, aveva materia sufficiente per seppellire in una amara risata la follìa del nuovo credo liberista-mercantile che stava per esplodere nell’orrendo conflitto tra Inghilterra e Francia, tra Freedom e Liberté.
L’etica alfieriana insorge: il culto del dio Commercio, la religione del Mercato globale, ha prodotto un danno ben più profondo dei saccheggi, delle distruzioni e degli eccidi di massa. Essa ha immercantato le coscienze, sopprimendo in noi (europei) ogni senso morale, per cui è buono ciò solo che rende economicamente, e ciò che non porta soldi non ha senso.
L’impegno gratuito, il lavoro oblativo, il piacere della professionalità seria, della creatività artistica e della ricerca filosofica senza ritorno in termini di royalties edi banconote sonanti, la contemplazione ascetica e la vita spirituale fanno ridere: per essere “qualcuno” occorre avere una nicchia nel tempio del Mercato, e le sole carriere “serie” sono quelle che portano a metter le mani sulla gestione del commercio e della finanza, comprese quelle che piamente provvedono alle opere di religione, garantite dalla profonda devozione alla Santa Bustarella. L’Europa costruita esclusivamente sul denaro e sulle merci, ha basi malferme e impure – come concluderà questa stessa Satira – perché prive di un robusto riferimento etico.
Alfieri non fa distinzione di classi sociali: la corruzione mercantile delle coscienze tocca imprenditori e operai, funzionari dello Stato e delle chiese; non c’è niente che tenga, né l’amor proprio e il senso dell’onore (amor di gloria) né l’amor di Dio (pietà religiosa): essere onesti laboriosi, geniali, pii non serve a niente, e se non si acquista un’identità nel mondo del denaro non si è nessuno. Al contrario, il Mercante esaurisce in sé l’essenza dell’umanità: egli solo pouò dire “Son tutto: io cambio e merco (dal latino mercor)”.
All’epoca di Alfieri anche alcune correnti di derivazione cristiana predicavano che il successo negli affari è segno del favore di Dio, e che il ricco è un prediletto del Signore. Esse fornirono una base ideologica di matrice religiosa alla “rivoluzione industriale” e al consolidarsi del sistema capitalistico europeo.
Nota: teniamo presente che il ricchissimo conte Alfieri scoprì il conflitto di interessi, e per poter dire queste cose, non solo si liberò di tutte le sue proprietà immobiliari (cedendole alla sorella Giulia in cambio di un vitalizio), ma rinunciò al titolo nobiliare e alla cittadinanza piemontese..
TESTO (vv. 52-69)
Voi, Siculi e Pollacchi, il grano vostro
Dateci tutto, o vi farem noi guerra:
pascavi in vece il Salumajo nostro.
Ma il truffato granajo si disserta 55
Ampio a voi, Lusitani, a patto espresso.
Che niun di voi più ardisca arar sua terra.
Tutto a viti piantar vi è pur concesso,
il vostro suol, dal buon Britanno amico,
che il vostro avere ha in cuor
più che sè stesso. 60
Ei, bell’e cotto il pan, perché col fico
Voi vel mangiate in pieno ozio giocondo,
mandavi; e chi sel cuoce è a lui nemico.
Così, non che le scarpe, anche il più immondo
Attrezzuccio, ei vel manda insino a casa; 65
e v’inibisce ogni pensiero al mondo,
fuorché di dargli quanto vin s’invasa,
le vostre lane e gemme e argento ed oro,
e ogni altra cosa che vi sia rimasa.
Trascrizione attualizzata.
Esempi concreti: gli inglesi impongono alla Sicilia e alla Polonia – i tradizionali granai d’Europa – la monocultura del frumento, al Portogallo quella del vino, materie prime da trasferire alle manifatture inglesi, e successivamente rivendere sotto forma di prodotto finito ai paesi produttori, a cui si vieta di trasformarle in proprio (evitando così il pericolo di concorrenza). Il bello è che, ciò facendo, gli inglesi hanno anche la pretesa di presentarsi come benefattori dell’umanità e dispensatori di civiltà, con la scusa che i loro rapporti economici avvengono tramite regolari trattati internazionali, essendo del tutto secondario che la garanzia del successo di tale progetto è la superiorità militare e che vengono imposti con la pistola puntata alla tempia. Ciò condiziona la cultura dei “partners” economici a cui – peraltro – si ha cura di “inibire ogni pensiero al mondo”: dalle scarpe al pitale, è la britannizzazione dell'universo.
Libera interpretazione
Una lezione di macroeconomia: l’organizzazione mondiale del commercio dell’impero britannico nella seconda parte del Settecento. Il criterio generale è chiaro e a suo modo “scientifico”: trasformare il mondo in uno scacchiere di monoculture, con il prelevamento delle materie prime nei paesi deboli e la trasformazione nelle manifatture della madrepatria, che rivende il prodotto finito a prezzo di monopolio.
La tragedia greca rivela i drammi delle corti, verminaio di intrighi e soprusi, ma che restano quasi sempre drammi interiori e interpersonali, scatenati dalle passioni umane più che dalla ragione di Stato. Anche la commedia greca è inserita nel quadro politico, ma in modo indiretto; così dicasi di quella di Plauto, che era costretto dalla censura ad ambientare in Grecia le sue dissacranti sceneggiature su vecchi possidenti taccagni e boriosi generali inefficienti, per non rischiare di scuotere la credibilità dei due pilastri portanti della società romana, il paterfamilias e il dux.
Pure Orazio e Giovenale facevano satira parlando a nuora perché suocera intenda.
Qui Alfieri, invece, mette la prua in rotta di collisione sugli orrori e le iniquità del sistema politico in quanto tale, non sulle debolezze o gli errori o la cialtroneria dei mercanti.
Questo nobile astigiano autodidatta si dimostra un politico/politologo che si esprime in poesia e in letteratura - che per questo inventa un genere e un linguaggio inediti - non un poeta/letterato “imprestato” alla politica. Nel furibondo scatenarsi dei diversi nazionalismi del suo tempo, intuisce e denuncia la logica comune che tutti li determina, la sete di potenza economica, come oggi fanno i movimenti di base irriducibili (quelli a cui “non va mai bene niente”) che si oppongono a livello planetario, all’attuale gestione del mercato globale, basato sullo sfruttamento permanente e sistematico degli stati ricchi sui popoli impoveriti Aveva intuito con due secoli di anticipo che – lo si voglia o no – si finisce sempre per “parlare come si mangia” e accettare l’egemonia per via merceologica è sostanzialmente un arrendersi all’egemonia culturale. C’è un messaggio per noi: se vogliono imporci i loro “navigati fetidumi”, la disobbedienza incomincia dal “fast food”, e i signori della guerra umanitaria deglutiscano pure i loro hamburger di plastica riciclata tracannando lattine di uranio impoverito allo stato liquido.
Una recondita chiave di lettura (e v’inibisce ogni pensiero al mondo, al v. 66) ci aiuta a capire lo scopo essenziale della gran macchina del Mercato: impedire alla gente di pensare.
TESTO (vv. 70/93)
Ma voi, Galli nemici, e popol soro 70
foste dall’Anglo, or siate in suo ristoro
a comprar per trattato a forza avvinti
dall’Anglo sol del Canadà i cappelli,
e sproni, e selle, e freni, e fruste, e cinti. 75
Voi, Suechi, e Dani, poi da buon fratelli,
darete all’Anglo solo i vostri abeti,
e il ferro, e il rame, ond’ei sue navi abbelli.
E così tutti i Popoli discreti
Tutto dar denno, e ripigliarsi il poco, 80
di che vorrà il Britanno farli lieti.
Ma, tra il Batavo e l’Anglo, arde il gran fuoco,
perché tra lor da barattar null’hanno,
né vuol l’un l’altro dar l’avaro loco.
Salano aringhe entrambi, entrambi fanno 85
rei formaggi, e confettan lo stocfisce;
e di balene a pesca entrambi vanno: dunque, forz’è che invidia tra lor strisce,
e si barattin, se non altro, il piombo:
né già tal guerra in lor soli finisce; 90
che tutta Europa, mercé il gran Colombo,
or si dà in capo pel Real Tabacco,
or per l’accciughe, ed or pel tonno e il rombo.
Ora esaminiamo il rapporto “commerciale” dell’Inghilterra con la Francia, la Svezia, la Danimarca e l’Olanda. Inghilterra e Francia sono potenze marinare rivali e quasi “sorelle”, ma i francesi recentemente le hanno buscate (nel 1763 la Francia cede il Canada a seguito della “guerra dei sette anni”, ndr), e hanno dovuto accettare nel trattato di pace una dura condizione commerciale: pertanto devono fornirsi unicamente dal Canada (ora inglese) di tutto l’equipaggiamento per la cavalleria e dei pellami lavorati. Parimenti, gli Inglesi pretendono di essere l’unico partner commerciale di Svezia e Danimarca per quanto riguarda le materie prime necessarie alla cantieristica navale: legname, ferro, rame (nel 1756 l’Inghilterra si era schierata con la Prussia contro la lega antiprussiana di cui facevano parte appunto Svezia e Danimarca, e pertanto, dopo la vittoria, partecipava ai benefici commerciali sanciti dal trattato di pace del 1759, n.d.r.).
Così tutti i popoli, opportunamente messi in riga, devono tutto dare, accontentandosi del poco concesso benevolmente dagli Inglesi. Ma è tra Inglesi e Olandesi che son fuochi e fiamme, perché non hanno nulla da barattare, e gli uni non vogliono cedere il passo agli altri (nel 1780 l’Olanda si trovò in stato di guerra con l’Inghilterra a causa degli aiuti forniti alle colonie ribelli del Nordamerica; l’A. scriveva dopo che Napoleone aveva occupato nel 1795 l’Olanda, che fu denominata Repubblica Batava, n.d.r.). Quanto alle merci, entrambi salano aringhe, producono terribili formaggi, confezionano stoccafisso e pescano balene: logico che li divori l’invidia, e si scambino schioppettate in mancanza d’altro. Ma questa guerra non riguarda soltanto loro: grazie al gran Colombo, c’è dentro l’intera Europa, ormai fuori di testa per il monopolio del tabacco o per il mercato delle acciughe, del tonno e del rombo.
Libera interpretazione
Chiariamo subito che Alfieri non era affatto un antibritannico viscerale (era invece, per sua stessa ammissione, visceralmente antifrancese, e con una certa autoironia spiegò anche il perché). Era stato a Londra più volte, ammirava l’Inghilterra per la libertà, l’ordine e la pulizia che vi regnava (la rivoluzione industriale non aveva ancora riempito di smog le verdi vallate, le bianche casette e i polmoni di una classe proletaria non ancora nata); di più, si divertiva come un matto a travestirsi da cocchiere e guidare la propria carrozza all’impazzata creando nel cuore della City ingorghi mai visti e litigando come un carrettiere con i…colleghi. E infine, si era preso una cotta memorabile per lady Penelope Pitt, al punto da doversi misurare in duello con il visconte Ligonnier, colonnello della Guardia Regia e legittimo consorte. Fu risparmiato dopo un graffio, perché quanto a spadaccino valeva zero, e in più aveva duellato con un braccio al collo, in seguito a una rovinosa caduta da cavallo (ottima scusa). Insomma, amava l’Inghilterra e gli inglesi di entrambi i sessi, fatte le debite differenze, così come amava l’Olanda e le olandesi (qui la cotta fu raffreddata, dopo un po’, dalla spasimata, senza altre conseguenze perché l’attempato marito era di più ampie vedute). In sostanza, qui non si tratta di “odio”: la critica è squisitamente filosofico-politica; e dove sta la carica satirica? E’ chiaro che chiamare “libera concorrenza” un affare trattato a suon di cannonate fa davvero ridere. Ma non fa ridere tutti, se – come dicono – il Cancelliere Bismark teorizzava che la guerra non è che uno dei tanti modi di fare politica. E nemmeno oggi fa ridere. Tanto per restare in tema, le multinazionali della pesca non farebbero complimenti se qualcuno decidesse di far chiarezza sui milioni di tonnellate di cosiddetto tonno che le mode - indotte sapientemente - fanno ingurgitare ai milioni di sprovveduti che popolano i supermercati dell’orbe terracqueo.
TESTO (94-111)
Ma in cotai sudiciumi omai mi stracco.
Io tronco il nodo, e dico in un sol motto 95
che il commercio è mestiero da vigliacco;
ch’ogni virtude, ogni bontà tien sotto;
ch’ei fa insolenti i pessimi; e i legami
tutti tra l’uom più sacrosanti ha rotto.
Nei mercanteschi cuor, veri letami, 100
non v’ha né Dio né onore né parenti,
che bastin contro le ingordigie infami;
né patria v’ha; che abbiam gli esempi a centi
di mercanti, che vendon di soppiatto
e palle, e polve, e viveri, e strumenti 105
micidiali, a chi pur vuol disfatto
lo Stato loro, e in viva guerra uccide
i lor fratelli e figli a brando tratto.
Il vendi-sangue, intanto imborsa e ride;
ch’ei quanto vile, stupido, non scerne 110
che avrà sua borsa chi il suo suol conquide.
Mi sono stufato di queste sconcezze; la smetto, dicendo in breve che il commercio è mestiere da vigliacchi: primo, perché si considera superiore a tutto ciò che c’è di buono nell’uomo; poi perché rende arroganti i peggiori soggetti; infine, perché ha spezzato tutti i più sacrosanti legami capaci di mantenere unita l’umanità.
Nei cuori mercanteschi – autentiche fogne – non c’è né Dio né senso dell’onore o dei rapporti parentali che siano in grado di contrastare le infami ingordigie; e neppure il senso della patria, viste le centinaia di esempi che abbiamo sotto gli occhi, di mercanti che vendono di contrabbando munizioni, vettovagliamenti, armi micidiali anche a chi aggredisce il loro paese e ammazza in guerra aperta i loro fratelli e figli. Sono dei venditori di sangue, contenti soltanto di intascare soldi. Vili quanto idioti, perché chi conquisterà il loro paese si impadronirà anche dei loro soldi.
Il Poeta punta direttamente su quello che per lui è il centro del problema: la politica di rapina illustrata finora con tanta ricchezza di documentazione proviene dal cuore degli uomini peggiori, fogne del genere umano. Politica ed etica sono intimamente legate, fare una politica o un’altra è frutto di scelte responsabili, dunque moralmente valutabili. L’antimilitarismo alfieriano – che verrà in piena luce nella satira XIV - dice che la guerra è frutto di vergognose ingordigie mercantili, non di nobili sentimenti patriottici, ed ha bisogno di gente senza scrupoli per essere in qualche modo giustificata agli occhi degli onesti.
Il mercato di rapina e la guerra – come si è dimostrato – sono due facce della stessa medaglia.
All’esatto contrario di quanto vuol far credere la retorica di regime, Alfieri insegna che il Dio Mercato non costruisce nulla, anzi demolisce quanto di più sacro c’è nel cuore umano, crea gli odi e “vigliaccamente” ci mangia sopra, sostituisce l’amor di patria con l’amor di arricchimento indebito, a costo di spegnere il lume della coscienza morale. E’ chiaro il rapporto tra il mercato delle armi e la società consumista e cialtrona che ingrassa sulla morte dei poveri ma non vuole saperlo..
Fra “le centinaia di esempi” di mercanti d’armi sopra evocati, Alfieri pensava certamente a dei furfanti concreti: con le guerre napoleoniche, lo sciacallaggio delle armi sui campi di battaglia era una pratica corrente, per cui il mercato clandestino degli armamenti non poteva che prosperare. E poi, la guerra è guerra, e l’assassinio collettivo - con tutto ciò che lo rende possibile – è ampiamente legalizzato e pienamente condonato. Il quinto e il settimo comandamento sono abrogati per decreto di governo, con la demolizione di ogni senso civico e morale, religioso o no.
Come meglio dirà nella Satira Undecima (vv.55-57) le alate dichiarazioni di principio, limpide e cristalline come ruscelli di montagna, diventano letame appena entrano nella fogna: è la metamorfosi che subiscono i tanti discorsi patriottici e i fervorini moraleggianti in bocca a personaggi impresentabili.
Alfieri insiste: il Culto del dio Commercio ha prodotto un’umanità transgenica, nella quale ha sostituito il cuore con il portafoglio.
Non c’è niente che non si possa comprare e vendere, e un maggiore guadagno giustifica qualunque cosa: il lavoro minorile con orari impossibili, le lavorazioni inquinanti, la mancanza di sicurezza nei cantieri, il traffico d’armi e di manodopera in nero, il mercato della droga, le discariche tossico-nocive, il turismo sessuale, la schiavitù e la tratta dei corpi, la compravendita degli organi umani.
Quanto basta per qualificare come un “vero letamaio” il “cuore mercantesco”, che trova del tutto normale passar sopra a ogni sentimento che non siano le ingordigie infami: né la fede in Dio, né il piacere dell’onestà, né i legami di parentela.
L’Alfieri, dopo aver documentato l’infamia delle operazioni mercantili portate avanti dalle potenze europee (vv. 39-93) con l’appoggio di flotte ed eserciti, conclude con una sentenza lapidaria: il Commercio è mestiero da vigliacco: ch’ogni virtude, ogni bontà tien sotto;
ch’ei fa insolenti i pessimi, e i legami tutti tra l’uom più sacrosanti ha rotto.
Pare trasparente l’allusione al legame più sacrosanto che è la fraternità universale, peraltro ufficialmente proclamata nella rivoluzione francese, ma presto rinnegato nei fatti dalla ricca borghesia che aveva promosso Bonaparte come promotore del Mercato (l’industria francese decollò grazie alle forniture militari)
Neppure l’amor di patria (ma quale patria?) è un sentimento sufficiente a trattenere un “cuor di fogna” dall’ingordigia infame che lo muove: sono centinaia i trafficanti che praticano il contrabbando d’armi e di tutto ciò che serve alla guerra, senza tener conto del fatto che chi compera le loro merci può benissimo usarle contro i loro stessi connazionali e la loro patria. Perché la loro patria, in realtà, è l’anonimato dei paradisi fiscali e le matrioske di infinite società off-shore.
Il nostro modello di vita fa di tutti noi i mercenari (perlopiù inconsapevoli, e zittiti con quattro soldi) di un esercito di occupazione che rastrella ricchezze nel restante novanta per cento del pianeta a esclusivo vantaggio di strette minoranze di famiglie straricche. Se in qualche momento si profila il pericolo di una presa di coscienza collettiva, i poteri forti giocano sulla politica dei redditi, dei prezzi e dei consumi, in modo da ostacolare nei cittadini la volontà di riscatto con lo spauracchio della miseria. E talvolta la minaccia viene messa in pratica, e la miseria arriva veramente, con manovre che provocano l’annullamento dei risparmi di un’intera vita per intere popolazioni.
Il problema si pone: come ribellarci, come praticare la renitenza, l’insubordinazione e la diserzione, per negare la solidarietà e il favoreggiamento a questo sistema dell’impero globale?
TESTO (vv. 112-144)
frasi dei nostri illuminati ingegni,
che tengonsi astri e non son pur lucerne.
In tue rimuccie, a sragionar tu insegni, 115
stolto, ignorando che il Commercio è il nerbo
primo e sol, di Repubbliche e di Regni.
A voi, che avete il fior del senno in serbo,
fingendo io pur che m’è il connetter dato,
risponderò incalzante, e non acerbo. 120
Non si impingua né Popolo né Stato
Mai pel Commercio, se dieci altri in pria
Vuoti ed ignudi non fan lui beato.
Ma breve è ognor beatitudin ria:
dovizia, e lusso, e i vizi tutti in folla, 125
fan che a chi la furava amara sia.
Né, perch’un popol mille antenne estolla,
cresce ei di gente in numero infinito,
che il mar ne nutre assai, ma più ne ingolla.
Pur, poniam vero il favellar sì trito 130
che duplicati e triplicati apporta
gli uomini dove è il trafficar fiorito;
al vero onor d’umanità che importa,
che di tai bachi tanti ne sfarfalli,
sol per moltiplicar la gente morta? 135
Molte le mosche son, più molti i Galli;
ma non è il molto, è il buon, quel che fa pregio:
se no, varrian più i Ciuchi che i Cavalli.
Sempre molto è quel Popolo ch’è egregio,
e quanto è picciol più, vieppiù destarmi 140
de’ maraviglia, s’ei d’alloro ha il fregio.
Religione, e leggi, e aratro ed armi,
Roma fean; cui Cartago mercantessa
Men che rivale, ancella, in tutto parmi.
A questo punto mi par già di sentirli, gli illuminati ingegni della moderna filosofia, che si prendono per stelle di prima grandezza e nemmeno son lucciole: “Idiota, tu stai fuorviando il Popolo con le tue poesiole! Non sai che il Commercio è l’unica e più importante spina dorsale degli Stati?” Rispondo senza acrimonia, come se anch’io fossi in grado di ragionare: nessun Popolo, nessuno Stato si arricchisce con il Commercio, se prima non ne svuota e spoglia altri dieci. Ma la felicità di malacquisto dura sempre poco: la ricchezza, il lusso e tutta la schiera dei vizi che ne conseguono, si incaricano di amareggiare la vita a chi se l’è procurata con il furto.
Del resto, non è che un popolo cresca all’infinito per il sol fatto di possedere enormi flotte: il mare dà da mangiare a molta gente, ma ne inghiotte anche di più. Tuttavia. diamo per buona la vecchia favola che, dove fiorisce il Mercato, la popolazione raddoppia e triplica: e allora? La quantità non è la qualità, e che senso ha far nascere tanta gente solo per moltiplicare il numero dei morti? Ci sono più francesi che mosche, e se quello che conta è il numero, allora gli asini valgon più dei cavalli. Un popolo nobile è sempre grande, e quanto più è piccolo, tanto più devo ammirare la sua grandezza. Roma si è affermata grazie alle proprie leggi e virtù civili, mentre Cartagine, potenza commerciale aggressiva, non ha retto al confronto.
Alla lezione di geopolitica, segue quella di filosofia, sul tema “Gli errori più comuni del PUN (Pensiero Unico Neoliberista)”. Cavaliere solitario in una prateria di Signorsì (la “maggioranza silenziosa”), Alfieri riesce persino a restare calmo e a discutere pacatamente. Come nella caccia alla volpe, l’Autore è solo a correre davanti a un esercito di aristocratici e di lacchè, oltre agli stupidissimi loro cani, addestrati a uccidere per una scodella di sbobba. Egli si identificava anche con il mito del popolo romano (insisteva sempre nel precisare che per lui Roma era finita nel momento stesso in cui aveva cessato di essere una libera repubblica per diventare un impero). Duecento anni dopo, un altro piemontese solitario - Norberto Bobbio - avrebbe detto che la storia dell’umanità è stata dominata dalla volontà di potenza, non dalla volontà di capire, guidata dalla ragione; e che compito del filosofo è far trionfare la ragione. Poi, citando Carlo Cattaneo, altro uomo solo, avrebbe sostenuto che “la filosofia è una milizia”. E Noam Chomsky: “Da quando ho sviluppato una coscienza politica, mi sono sempre sentito solo, e parte di una piccola minoranza”.
Non s’impingua né Popolo né Stato mai pel Commercio, se dieci altri in pria vuoti ed ignudi non fan lui beato. (vv. 121-123)
In sostanza – dice Alfieri – il Commercio da solo non è in grado di produrre ricchezza in misura sufficiente da “impinguare” cioè ingrassare, un popolo o uno Stato.
La ricchezza dei paesi ricchi è inevitabilmente frutto di un permanente intervento di spoliazione ai danni dei paesi impoveriti da cinquecento anni di imperialismo economico e militare messo in opera dall’Occidente.
Non ci sarebbero paesi “sottosviluppati” se non ci fossero governi “sottosviluppanti”.
L’Alfieri azzarda anche una valutazione statistica, stimando che il rapporto tra ladri e derubati sia di uno a dieci. Questa cifra non è lontana dalla realtà scientificamente provata. In base alle ricerche storiche, le popolazioni di tutti gli imperi – assiro-babilonese, egiziano, romano compresi - contavano un dieci per cento di ricchi che costituivano la classe dirigente, e assorbivano le ricchezze prodotte dal restante novanta per cento. Nella civilissima Roma la povertà veniva sapientemente addomesticata con periodiche pubbliche elargizioni di generi alimentari, per non rischiare – da un lato – rivolte incontrollabili causate dalla fame e non permettere – dall’altro - lo svilupparsi di movimenti di liberazione, tenendo sotto controllo la “classe media”. Lo schema è sempre quello.
L’Azienda-Occidente di oggi è ben lontana dal potersi presentare come efficiente: essa è un’azienda assistita, poiché sopravvive soltanto grazie alla quotidiana rapina perpetrata nel resto del mondo. Sulle nostre tavole - come su quelle dell’illuminato Settecento - nei nostri motori, nelle nostre case, nei nostri armadi, nei nostri ospedali, nelle nostre stesse biblioteche e nelle nostre chiese si trovano abbondanti giacimenti di refurtiva sottratta a popolazioni che a causa di ciò muoiono di malattie banali, di fame e di veri e propri interventi di genocidio.
Fa fede l'Archivio delle Indie: solo fra il 1503 e il 1660 sono arrivati in Europa 185mila chili d’oro e 16 milioni di chili d'argento saccheggiati nel Nuovo Mondo (senza contare quelli affondati lungo il tragitto). Lo sviluppo del capitalismo occidentale è partito di lì.
TESTO (vv.145-166 - fine della satira XII)
Quand’anche or dunque differenza espressa 145
il non-commercio faccia in men Borghesi,
non fia poi cosa, che un gran danno intessa.
Liguria avrìa men muli e Genovesi ;
sarian men gli Olandesi, e più i ranocchi,
nei ben nomati in ver Bassi Paesi: 150
ma che perciò, vi perderemmo gli occhi
nel pianger noi lo scarso di tal razza,
che, decimata, avvien che ancor trabocchi?
In qualche error, ma sempre vario, impazza
ogni età: Cambiatori, e Finanzieri; 155
gli Eroi son questi, ch’oggi fa la Piazza:
questi, in cifre numeriche sì alteri,
ad onta nostra, dall’età future
faran chiamarci i Popoli dei Zeri.
Ma morranno anche un dì queste imposture 160
come tant’altre ch’estirpò l’Obblio:
e si vedrà, basi malferme e impure
aver gli Stati, ove il Commercio è Dio;
e tornerassi svergognato all’Orco,
donde, uccisor d’ogni altro senso uscìo, 165
quest’obeso impudente idolo sporco.
Trascrizione attualizzata.
Poniamo pure che rinunciando all’idolatria del Mercato si riduca il numero dei “nuovi ricchi”: non sarebbe poi un gran danno. Meno muli e genovesi in Liguria, meno olandesi e più ranocchi in Olanda: dovremmo disperarci per questo? Per quanto si riducano, sono sempre troppi.
Ogni epoca sbaglia strada infatuandosi per qualche follìa: oggi è la volta di cambiatori e i finanzieri, i nuovi Eroi, proclamati in Piazza Affari. Pavoneggiandosi tra un polverone di cifre, fanno sì che, con nostra somma vergogna, saremo riconosciuti dai nostri discendenti come i Popoli degli Zeri.
Ma anche questa sbornia sarà finalmente sbugiardata, come tante altre che sono ormai sepolte nel dimenticatoio della Storia: e allora verrà in chiaro che gli Stati fondati sull’adorazione del Dio Mercato si reggono su basi sordide e malsicure. Si scoprirà l’inganno di questo idolo obeso e sfacciato, che cancella ogni altro sentimento, e che se ne tornerà all’inferno da cui è uscito.
Libera interpretazione
Una sciabolata di sarcasmo conclude il complesso discorso, finora minuziosamente fondato su dati di fatto; genovesi e olandesi diventano il simbolo della borghesia rampante che sta prendendo il potere in Europa e, di conseguenza, nel mondo occidentale sulle due sponde dell’Atlantico. Napoleone era notoriamente sostenuto dalle consorterie della borghesia mercantile che si arricchiva con i profitti di guerra, e mirava alla conquista dei mercati internazionali, mentre la Santa Alleanza non aveva alcuna intenzione di farsi soffiare la consueta rendita di posizione. La conclusione, di taglio enfaticamente profetico, prevede il crollo della religione del Denaro Onnipotente. La profezia è anche sempre un messaggio etico: la caduta dell’Idolo è inevitabile perché il suo fondamento essenziale è la menzogna.
Avevamo detto che l’attacco alfieriano agli inglesi, francesi e olandesi, non è motivato da una sua personale antipatia per questi popoli, ma da una precisa scelta filosofico-politica; altrettanto si deve insistere nel dire che il suo obiettivo non sono i privati esercenti e operatori del dettaglio, i quali, per vivere, svolgono onestamente un’attività oggettivamente colpevole, così come gli operai in acciaieria producono materiali che altri destinano all’orribile uso militare. Basti dire che il migliore amico di Alfieri – forse il suo unico vero amico – era Gori Gandellini, un senese negoziante di stoffe.
La satira successiva (la tredicesima, I Debiti) viene preannunciata da quei pochi versi folgoranti e spietati: la moda impone la sua follìa ad ogni cambio di stagione: oggi è la volta dei banchieri “creativi” e venditori di bugie avvolte in carta straccia, che ci incantano aggiungendo file interminabili di zeri ai loro conti fantomatici. Tutti ormai capiscono a volo quanto sia azzeccata la definizione alfieriana, discendente ultimo di una antica dinastia di prestasoldi: hanno fatto di noi “il popolo degli zeri”. Non dimentichiamo, tuttavia, che uno stupido è uno stupido, ma un milione di stupidi è una forza storica.
E si vedrà basi malferme e impure aver gli Stati dove il Commercio è dio. E tornerassi svergognato all’Orco, donde, uccisor d’ogni alto senso uscio, quest’obeso, impudente idolo sporco. (vv. 162-164).
Alfieri, come ogni profeta, è sicuro del fatto suo, ed è ottimista. Gli idoli non possono durare e tutto questo traballante scenario crollerà di botto, dove si è puntato tutto sulla fede cieca nelle virtù taumaturgiche del dio Mercato. Quando saranno venuti alla luce i suoi misfatti, questo idolo sporco imbottito di nulla, fondato su basi inconsistenti e immorali finirà comunque per tornarsene all’inferno da cui è uscito.
La profezia alfieriana non concede margini di salvezza. La via d’uscita non può essere altro che una pronta inversione di marcia, termine laicale per definire la conversione, la restituzione del maltolto e la riprogettazione di un mondo diverso possibile.
Naturalmente, questo discorso ha fatto sì che Alfieri venisse immediatamente classificato come nemico del progresso, della modernità, degli immarcescibili destini della felicità uversale, incapace di vedere l’alba delle “magnifiche sorti e progressive” di un mondo ormai trionfalmente incamminato verso la realizzazione del Paradiso Terrestre.
I mercanti di prodotti culturali di consumo hanno ritenuto che le sue Satire fossero un piatto indigesto e poco vendibile nei fast food della cultura di massa; effettivamente, per chi è abituato a succhiare caramelle, a masticare gomma o a nutrirsi di “nonsocché alla maionese” si presentano come una cura da cavallo, e quelli che non hanno ancora scoperto o non intendono affatto scoprire di aver bisogno di una medicina preferiscono dileguarsi.
Il pensiero politico alfieriano e il suo intransigente messaggio morale, libero da ogni traccia di ideologismo e irrecuperabile per qualunque clan di potere, spiega come la cultura ufficiale lo abbia ricevuto con un immediato fastidio e “messo in naftalina”.
Forse è venuto il momento per “scatenarlo”, levandolo dai ceppi del “politicamente corretto”
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